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icon11  view post Posted on 20/4/2013, 15:20 by: gpdimonderose




.............................La rosa senza perchéLa portata e la gittata di una “certa” teo-logia negativa – discorsonegativo o interrogativo intorno a Dio – che in questa sede vorreiindicare, è quella che mi sembra trapelare, nel modo di un bassocontinuo di sinfonia, dalle maglie del pensiero di Derrida. Vibrazionesilenziosa, si marca forse attraverso la manovra sotterranea delladecostruzione, impegnata nel lavoro di mantenimento di un’anar-chica attività di dislocazione, di un’interruzione eccellente già dasempre in atto in ogni sistema; quella operata dalla differance-traccia– spaziatura, piega, altro, eterogeneo, terzo oltre ogni genere di es-sere – che avrebbe interdetto il procedere metafisico, come resistenzainsuperabile e irrisalibile al cuore di esso.Tale impasse inscritta in modo anarchico in ogni principio diragione, disvelata dal gesto decostruttivo emergerà nella sua istanzadi ritrazione ed auto-cancellazione come lo spazio di una faglia invi-sibile. La decostruzione, riconfigurandosi sulla soglia del solcodell’apofatica senza tuttavia ricadere in esso, potrà sollevare la que-stione di un “luogo introvabile” che ad un tempo fonda, com-prende, eccede e depone il dispositivo economico innescatodall’onto-teologia, schiudendo un “nuovo pensiero dell’evento”.Sebbene Derrida mantenga in più occorrenze una precisariluttanza all’assimilare il pensiero della differenza e della traccia allinguaggio tipico dell’assiomatica della teologia negativa tradizionale(in quanto esse sono irriducibili all’ordine dell’essente e ciò che inesse si imprime non è niente di teologico, neppure in senso nega-tivo1), d’altra parte resta evidente, all’avviso di chi scrive, quanto ladecostruzione rilegga in una “particolare esegetica” il percorso
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PARTE SECONDA472teologico-negativo e lo conduca alle sue estreme conseguenze,avviluppandolo in una sorta di iperbolizzazione.Questo breve scritto ha l’intensione di prendere in esame come ilsingolare movimento di Derrida radicalizzi il vettore mobile, oscil-lante, e vedremo sdoppiato della decostruzione al di qua della teo-logia negativa stessa: nell’“oltre dell’oltre”. La “via negativa”, met-tendo in questione il Dio dell’onto-teo-logia e gli attributi che lodefiniscono, avrà aperto in Derrida un discorso obliquo, un “passodi sbieco” che destituirà di fondamento il Summum Ens della meta-fisica. Prendendo le mosse dalla torsione imposta alla via negativa, ladecostruzione comincia a considerare l’idea di Dio senza l’essere,impensato e inconoscibile; in questo senza si apre una “topografiadella negatività e dell’a-topia di Dio” da cui emergerà dunque un diointeso sia come l’assolutamente altro – Terzo senza-nome, Segreto,Nulla – sia come luogo-traccia insituabile ove l’avvenimento di ognialtro può e-venire, senza che nessuna previsione ne neutralizzil’alterità riassorbendola nello spazio del proprio.La teologia negativa, riformulata da Derrida a partire dalle fontidella mistica cristiana, oltre-passa2 e dif-ferisce – nel senso che fadifferenza, che “apre la differenza, il supplemento di spaziatura al diqua dell’origine”, ma anche che “rinvia all’infinito” – l’istante in cuiogni prospettiva di carattere teo-teleo-logico si risolve nel suo fine;interrompe perciò ogni economia-garanzia di salvezza (soterio-logia)e ogni teoria-disposizione delle cose ultime (escato-logia), nonestranea neanche alla teologia negativa. Nella manovra di Derrida,quell’«economia paradossale»3 che egli riconosceva alla correntenegativa raggiunge la sua ulteriore de-teleologizzazione; è toltoanche il tendere ad una presenza finale: l’unione con Dio. Ma riprendiamo l’analisi “dal principio”. La tradizione metafisica,a partire da Aristotele e poi nella teoresi scolastica, aveva pensatoDio nei termini di un Ente essenzialmente essente, l’Essere necessarioe incausato, la Ragione-causa suprema (il fondamento, il principio,Grund) e pertanto il Fine ultimo, l’ultima ratio dell’esistente. La “vianegativa”, fin dal suo emergere proprio tra le pieghe del pensierocristiano, procedeva invece allo svuotamento di ogni discorsopositivo su Dio; cercava dunque non solo una graduale “de-sostanzializzazione” di Dio ma si volgeva a rilevarne il suo statuto
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TEO-LOGIA NEGATIVA473ab-solutum, sciolto da qualunque rispondenza all’idea di essere, ratioo senso.Prendendo a prestito le parole di Silesius, Dio doveva esserecolto nel “nulla abissale della sua sovra-divinità”. Sorgeva dunque lanecessità di un logos trasversale, che richiedeva un certo “sacrificiodella ragione” e della pulsione oiko-nomica a questa legata e che sispostasse nel senso di un superamento, ad un tempo, dell’idea diDio come ragione teleologica e della razionalità umana come calco-lante e rendente ragione di ciò che esiste, come ratio che dispone,rap-presenta, controlla nel proprio orizzonte di senso qualunqueobiectum, ricomprende ogni Altro (umano e divino) nella logica nor-mativa della dimora.Quando Heidegger definiva il versetto di Angelus Silesius –citato qui in esergo – come il più significativo del mistico tedesco,doveva aver colto lo stagliarsi, dall’immagine poetica, di un qualcheslittamento del principium rationis di Leibniz (1646-1716). «La rosa èsenza perché, fiorisce poiché fiorisce, a se stessa non bada, che tu laguardi non chiede»4. Sebbene la persistenza del “poiché” decidesseancora nel senso di una permanenza di questo verso nell’economiadel principio di ragione, tuttavia Silesius si sarebbe volto al di qua delfondamento metafisico, nel luogo ove il fondo perde le fattezze diuna “sostanza suprema” che giustifica l’essente, per assumere quelladi un abisso. Per Heidegger il movimento di distacco, di abbandono(Gelassenheit) praticato dal senza di Silesius rispetto alla ragioneleibniziana, lasciava “ambito di rivelabilità” (Offenbarkeit) al dio oltrel’ente e l’essere emergendo come il pensiero più adeguato a quelpasso indietro (Schritt Zuruck) che il pensatore tedesco volevacompiere al di qua del “principio di ragione” (uno dei pilastri dellametafisica come onto-teo-logia).Un pensiero dell’essere come Ni-ente, Nulla, fondamento sfon-dato, abisso (Ab-grund), fuori dalla metafisica come scienza e“logica” dell’essere dell’ente, si sarebbe richiamato a una “certa”teologia negativa5.Derrida scoverà nell’incedere apofatico una qualche dinamica didecostruzione: da un lato la decostruzione tradurrà l’effetto d’irru-zione di un Terzo senza-nome non dialettizzabile, che avrebbe primadi ogni archè, di ogni origine risalibile, destabilizzato il sistema
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PARTE SECONDA474onto-teo-logico e innescato la crisi dell’idea di Dio come essere efondamento. Dall’altro, decostruzione risponde all’urgenza del“lasciare operativi” gli effetti dell’interruzione del circolo metafisicoda parte di quel non-sistematizzabile e an-economico: lavora ad unlinguaggio del limite (oltre la “logia” metafisica) che liberi l’inattualee l’impensato velato dalla griglia economica; disserra la possibilità di“pensare” l’Assolutamente Altro avulso dalle categorie dell’essere.Il suffisso “-logia” in questo contesto si fa essenziale per il fattoche il bersaglio polemico della teologia negativa, fin dai suoi albori,era stato proprio il logos greco (inteso come pensiero, discorso,ragione, fondamento, calcolo e disposizione). La teologia negativa,nello specifico della lettura di Derrida, riformula l’idea del logos-discorso: lo scardina dalla necessità del linguaggio (come sistema disegni volto alla definizione di un oggetto) e lo rideclina nei terminidi un discorso obliquo: privo di referente, senza oggetto. Nel corsodella ristrutturazione di Derrida, la via apofatica si rileva comestruttura della de-ferenza infinita d’addio, che dice il ritegno per ciòche non si dà ad un’intenzione significante: un “dire particolare” chelascia venire l’altro come assolutamente imprevedibile, senza nome,inimmaginabile.Heidegger aveva suggerito una prima forma di decostruzionedella metafisica nell’aver rilevato, seppure non esplicitamente, ilcoappartenersi di metafisica ed economia. L’economia e la teleologialavorano nella metafisica come movimento della sua essenza onto-teo-logica; precisamente nell’essenza della metafisica emergel’urgenza di una qualche teologia negativa: intesa come istanza cherompe e rovescia le differenti configurazioni del “paradigmaeconomico” che si sono manifestate nelle articolazioni e nelle figureche la scienza dell’essere dell’ente ha presentato fin dai tempi dellasua fondazione aristotelica.È ora necessario segnare in modo sintetico, i luoghi in cui, apartire dall’entrata di Dio nella filosofia, Heidegger lascia risuonarel’impensato celato nell’onto-teo-logia e la possibilità del suo oltre-passamento. L’eredità della Destruktion heideggeriana, quell’idea delsenso dell’essere come abisso, sarà raccolta da Derrida per un’ulte-riore decostruzione del sistema metafisico. Il “primo” inabissamento di Dio “al di qua” della metafisica
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TEO-LOGIA NEGATIVA475Nel “Trattato teologico” di Aristotele (XII libro della Metafisica),Dio entrava nella filosofia nei termini della «Causa prima noncausata che unifica tutte le cause», l’essere dell’essente. Nella suaanalisi sull’ontologia, Heidegger avrebbe messo in rilievo come, daAristotele e nell’arco dell’intera storia della metafisica, la “questionedell’essere” fosse rimasta impensata nella sua essenza; l’esigenza dicogliere l’essere come fondamento dell’ente aveva condotto la meta-fisica a identificare tale essere con l’Ente sommo che rendesse legit-timo tutto ciò che esiste. La metafisica è quindi ontologia (discorsosull’ente) perché è teologia (discorso sull’Ente sommo) e teologiaperché è ontologia; il suffisso “-logia” indica qui l’insieme dellerelazioni di fondazione-giustificazione in cui l’essente è inteso nelsenso della sua ragione prima e ultima.Per giungere al “punto di avvitamento” che Derrida imprime altentativo heideggeriano di superamento del sistema metafisico,bisogna toccare con qualche riferimento i due cardini concettualiche si intrecciano nell’onto-teo-logia: il principio di identità e quellodi ragione. Vi è nel loro stesso fondo il portato di un nascondimentoessenziale: quello della differenza ontologica, la differenza tra essereed ente. Quali sono le due “ombre” che affiorano da questo oblio,come i “negativi” di una pellicola fotografica? Le indico in due voci:Ereignis (evento di appropriazione, ambito) e Abgrund (fondamentotolto, Ni-ente, abisso).L’epoca della tecnica (Gestell) “esauriva”, per Heidegger, la storiadella destinazione dell’essere, portava a compimento il deferimento(Austrag) di essere ed ente in cui la verità dell’essere si velava edisvelava (a-letheia). Il “momento tecnico”, apice dell’economiadella presenza, si capovolgeva perciò nel suo negativo astorico, ano-nimo e anomico: l’Ereignis, che bloccava ogni forma di produzioneeconomica-razionale di epoche, ogni calcolo del fine legato ad unfondamento. Lungi dal manifestarsi come nuova epoca dell’essere,l’Ereignis è invece il primo salto (Ur-sprung), lo scarto all’origine cheoltrepassa il fondamento della metafisica inteso come principium(nel senso dell’autorità, del comando); è un venire alla presenza origi-nario che elide ed elude il concetto tradizionale di origine (arché,principium, ratio, logos) e di presenza (parousia): è l’ambito (Bereich)
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PARTE SECONDA476in cui ogni palinsesto della finalità si scopre abolito. Il pensiero, nel“venire alla presenza” dell’Ereignis, diventa un pensiero “senzaperché”, senza progetto né definizione di un fine; un pensiero chelascia venire. Questa “deriva decostruttiva” nel principio di identitàè nodale per comprendere i cardini da cui Derrida riarticola la sualettura della teologia negativa, in particolare quando ci si troverà alleprese con un concetto sfuggente come quello di chora, lo spazio-traccia della differance in cui ogni origine si sottrae.Nihil est sine ratione seu nullus effectus sine causa. La “traduzione”heideggeriana del principio di ragione ribadiva a sua volta l’obliodella differenza ontologica portante nell’enunciato leibniziano. Ilprincipium rationis non parla del fondamento in sé, ma della “neces-sità per l’ente di avere un fondamento”. L’essere, colto come fonda-mento dell’ente, si “entificava” in Dio (Ente onnipotente) restandoobliato nella storia della metafisica. Questa “frase del fondamento”(Satz wom Grund) volge a render ragione dell’essente con un Enteche ne garantisce e ne assicura l’esistenza; in ciò si occulta l’infon-datezza del fondamento, la sua strutturale abissalità. È infattiproprio nel Nihil, primo termine del principio di ragione, che emergeil termine (nel senso di limite) della metafisica e del suo Grund;l’essere, fondamento dell’ente, differisce dall’ente in quanto non èun ente, ma un Ni-ente. Nella stessa formulazione del principiometafisico è la necessità che il Grund (l’essere non-ente) restiinfondato-inspiegato e inspiegabile, senza ragione, “senza perché”.La storia della metafisica si mostrava ancora una volta come unprocesso di “gestione” di un rimosso: l’essere come Ab-Grund(abisso insondabile) che sancisce l’ablazione di ogni ratio.Il passo indietro tentato da Heidegger rispetto alla tradizionefilosofica precedente, la domanda abissale al di qua delle maglieteleologiche della metafisica, liberava le potenzialità d’un pensierodell’“Eterogeneo”; nell’appropriazione nell’Ereignis, ambito checompie il deferimento essere-ente, e ad un tempo nello spalancarsidell’Ab-grund, l’insensato a condizione al principio di ragione, albeg-giano gli strumenti per un pensiero dell’Altrimenti che essere (espre-sione di Levinas) e quello di una certa “morte di Dio”. La teologia negativa come deferenza ad-dio
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TEO-LOGIA NEGATIVA477Il modello dal quale Derrida raccoglie – salvo poi sottoporreanch’esso a decostruzione – gli strumenti per un pensiero di Diocome assolutamente sciolto (ab-solutus) dal sistema metafisico, ècertamente quello offerto dalla tradizione mistica: in particolare loPseudo-Dionigi l’Areopagita, Meister Eckhart e Angelus Silesius.L’insorgere di un discorso negativo intorno a Dio che lo sgombrasseda ogni definizione mantenendolo nel segreto della suatrascendenza, deviava essenzialmente dalla speculazione “positiva”su Dio, diretta filiazione della tradizione onto-teo-logica inauguratada Aristotele. La teologia negativa muoveva nel verso di un conti-nuo svuotamento (kenosis) dei nomi di Dio, di una progressivaperdita, di una “morte di Dio” in quanto ens designatum: si trattavadella regressione dal Dio-obiectum in Dio-desideratum, da Ens summum in Nihil (non-ente, oltre l’ente e poi anche oltrel’essere).In Salvo il nome (1993) Derrida, intorno al termine “apofatico”,scriveva: «l’apofasis è la voce della teologia detta o se-dicente nega-tiva»6, una voce bianca, vuota, che parla di un Dio senza l’essere«o Dio che è al di là dell’essere. […] L’apofasi è una dichiarazione,un’esplicitazione, una risposta che, assumendo riguardo a Dio unaforma negativa o interrogativa, rassomiglia talvolta seppur erronea-mente ad una professione di ateismo, […] come una certa mistica, ildiscorso apofatico è sempre stato sospettato di ateismo»7.Derrida intende la teologia negativa come discorso al limite dellatradizione teologico-positiva e del linguaggio stesso. Ma ilparticolare tipo di “a-teismo” che egli ricordava come la più fre-quente accusa rivolta dalla tradizione ufficiale ai danni della corrente,quasi clandestina, del pensiero negativo di Dio, rivela due aspettiessenziali dell’apofasi: essa è ad un tempo parricidio e sradicamentodi ogni onto-teo-logia e post-scriptum, “contro-firma ritardata” chetestimonia l’incursione an-archica (senza origine) di “un certo spet-tro di Dio” come traccia smisurata e irrisalibile nelle viscere delsistema, che impedisce il soggetto nel suo agire economico.Nello spazio di questo discorso “pre-originariamente di risposta”
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PARTE SECONDA478a Dio, Derrida scova lo slancio del desiderio d’abisso che non è piùun dio, di un desiderare che resta nell’esitazione errante del ritegno edella disperazione; un anelito che abbandona il proprio oggetto, chegli dice addio per salvarlo dalla ri-comprensione della significazione.Questo peculiare a-teismo che salva il ciò/Chi senza-Nome, chenon si dà mai ad una intuizione e che resta irrappresentabile se nonin un «modo senza modo»8, schiude il luogo-desert(ic)o dello spaziodi evenemenzialità in cui l’Assolutamente altro, l’eterogeneo, puòvenire improvvisamente, fuori dalle previsioni di una teoria del fineo della Fine (intesa ad esempio come fine della Storia).La questione del luogo-evento dovrà essere chiarificata neltracciato delle due trame guida di questo paragrafo (parricidio e post-scriptum); in esse la “rivelazione” della teologia negativa di Derridadovrà annunciare la nuova pratica an-economica e ultra-metafisica.Parricidio e sradicamento. La definizione di Heidegger sullateologia negativa come “iperbole paradossale del cristianesimo”,coglieva appieno l’interruzione radicale da questa imposta al pen-siero cristiano; l’apofasi si scardinava infatti dall’intreccio delle traiet-torie onto-teo-logiche della «filosofia e l’ontologia di provenienzagreca, la teologia neo-testamentaria e la mistica cristiana»9. Di cosa la via negativa è nuntio? Essa Annuncia, fa risuonarel’abisso anarchico e insondabile di Dio. È necessario, dunque, unbreve esergo che prepari quel tratto del saggio di Derrida ove si facenno al contributo di Silesius, centrale ad una idea della teo-logianegativa come deferenza addio: a tal fine indico la doppia accenta-zione che Dionigi l’Areopagita legava al termine teo-logia: a untempo discorso di Dio, intorno all’essenza di Dio, riguardo alla que-stione di Dio, ma anche discorso di Dio, da parte di Dio agli uomini.Nella Teologia mistica10, l’esperienza dell’ascesa alla divinità avevaun carattere puramente linguistico: si trattava di raggiungere la nudacaligine di Dio mediante l’opera di uno svuotamento dei nomi dacui nelle Sacre Scritture era stato definito11. Non potendo venireassimilato all’Essere, “categoria” che esso produceva ma dalla qualenon era toccato, il dio di Dionigi era un «non-essere primitivo»12, unDio super-essente o iper-essente. La modalità dell’appropinquarsi atale oltre-divinità doveva articolarsi nei termini di una teologiaapofatica: prosciugare il lungo discorso simbolico, affermativo,
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TEO-LOGIA NEGATIVA479apofantico delle Scritture in un iter che, nel rimuovere i nomi (daquelli più infimi a quelli più vicini ad una qualche idea di Dio),raggiungesse la soglia dell’“ignoranza mistica”, apice della possibilitàdi una conoscenza di Dio. L’ultimo grado della risalita “a colpi dinegazione” si compiva, per Dionigi, in una teologia superlativa: eraqui in gioco il superamento di ogni proposizione su Dio, apofanticao apofatica che fosse, in forza di una “negazione eccellente” cheoltrepassasse il linguaggio stesso e la dicotomia ontologica essere-non essere. Il lavoro estremo di tale afairesis (dal greco:eliminazione) portava il linguaggio al suo limite, a spegnersi nelluogo del silenzio assoluto dell’ineffabile divinità, ove essa resta nelsuo segreto, ove nulla si vede, né si sa. La regressione “involutiva”del discorso ne convertiva il verso fino al luogo di Dio, antro ditenebra luminosissima in cui la «Trinità soprasostanziale,superdivina e superbuona»13, Colui che è al di là di tutti i nomi,aveva posto il proprio nascondiglio.Un ulteriore quadro essenziale per Derrida è la riflessionemistico-speculativa di Meister Eckhart14. Questi adottava la stessamarca teoretica di Dionigi abbracciando la corrente di pensierorimasta celebre come metafisica della conversione; a cui si oppone-vano le metafisiche dell’Esodo, di matrice scolastico-tomista, cheinterpretavano la rivelazione del Nome fatta da Dio a Mosè in Esodo3,14 (“Io sono colui che sono”) come la prova nella coincidenzadell’essere con Dio. Eckhart rileggeva però la conversione ispiran-dosi ad Agostino, in chiave immanentista: in essa, il luogo invisibile etenebroso della divinità corrispondeva col fondo segreto dell’animaumana (l’apex o abditum mentis). Il cammino mistico dovevariguardare dunque non l’ascesa, bensì la discesa dell’anima al luogopiù profondo di sé stessa, quello che Eckhart chiamava piazzaforte,favilla; la cittadella dove era Dio, “pura sapienza”, eccedente lacategoria metafisica di Essere. Eckhart apriva lo spiraglioall’apofatica nelle “tre morti dello spirito”, che scandivano gli stadidi purificazione che l’anima avrebbe dovuto raggiungere per“profondarsi” in Dio, deserto abissale della divinità che è in essa.L’anima doveva “praticare l’abbandono” (Gelassenheit) fino adarrivare in condizione di poter “patire Dio”, ovvero fino a ritrarsinel silenzio di ogni immagine, all’esser completamente assorbita,
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PARTE SECONDA480all’inabissarsi (sinderesi) al fondo segreto, abisso insondabile deldeserto della Deità (Gottheit)15.L’idea del “deserto” o più precisamente del luogo «ove nessuno èa casa propria»16, come nome che rispetta Dio nella sua indefini-bilità, farà da immagine speculare alla grafica derridiana della chora,luogo dell’“apertura senza ubicazione”: il deserto dove ogni teleo-logia ed economia è deposta. Nel percorso di Eckhart, l’idea di Diosi approfondisce nel senso del fondamento tolto (Ab-Grund) a talpunto da perdere la connotazione originaria di “puro intelletto” eprendere quella di Ni-ente, Nulla senza fondo: letteralmente, Dio èun “non si sa che” misterioso e nascosto. Come metafora dellatrascendenza assoluta di questo Ni-ente rispetto a tutti i discorsi dicarattere teologico, noetico, unologico, Eckhart riportava l’eventodecisivo della conversione di S. Paolo, l’incontro col “misterodivino” che questi ebbe sulla via di Damasco. «Paolo si alzò da terrae aperti gli occhi, non vide nulla […] non vuol dire nient’altro senon che, aperti gli occhi, vedeva il Niente. Non vedendo alcunché,vedeva il Niente divino»17.Il Niente di Dio, scrive Eckhart, deve essere “afferrato” comemodo senza modo, nell’assoluta dismisura, poiché nessun principio diragione umana lo ingloba. Il desiderio di Dio, che lancia ildinamismo di ogni teologia apofatica, deve tradursi nell’abbandonodel desiderio stesso, nel “disperato distacco” (altra “voce” delGelassenheit) dal Dio inteso in senso ontologico. La più efficacetraduzione poetica di quest’idea di Dio-ni-entità dell’origine18 èproprio l’opera di Silesius, forse in quel verso richiamato daHeidegger intorno alla “rosa senza perché”, che indicava lo spiraglioad un pensiero dell’essere fuori dal senso e dal principio di ragionesufficiente, che illuminava l’idea del non-senso di Dio, irrappre-sentabile deserto al di sopra di ogni concetto19.Se Derrida, nel saggio del 1993, riprende Silesius, è precisamenteper suggerire un’alternativa al logos onto-teo-logico: il linguaggiopoetico sembra offrirsi come più adeguato perno d’evasione dellasfera della significazione immediata. Gli enunciati apofatici traccianoun percorso del “senza”, fuori dall’economia che cerca l’apprensionedel significato: lasciano risuonare il Niente di Dio in un de-ferimento(un riferirsi senza-oggetto, senza dominazione della nominazione su
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TEO-LOGIA NEGATIVA481questo) che dif-ferisce sempre altrove il suo luogo introvabile. In undistico dal titolo Il mistico distacco, Silesius scriveva: «Il qualcosa sideve abbandonare. Uomo, se tu ami qualcosa, allora non ami nienteveramente: Dio non è questo e quello, lascia dunque per semprequalcosa»20. L’ateismo di cui i mistici sembravano essersi “mac-chiati” esprime perciò un amore infinito che è abbandono e amoreper l’abbandono: una rinuncia che salva il Dio intoccato (ab-solutum:sciolto, slegato dagli enti) e sfida la metafisica nella sua emergenzaessenziale: contemplare e spiegare il sommo principio.L’assassinio dell’Essere parmenideo nella sua riconfigurazionemetafisica, lo sradicarsi del dio dalla connotazione di Ente supremoo dalla giustapposizione all’Essere, all’origine disponibile eafferrabile, presente, è il risultato forse storicamente più rilevantedell’apofatica. Ma come riconfigurare il parricidio e lo sradicamentodell’apofatica sull’onto-teo-logia, il distacco, il desiderio e il limitar-si(nel senso dell’esser-linguaggio-del limite e dell’esser discorso auto-svuotantesi) della teologia negativa, nel pensiero di Derrida? Comequesto discorso senza nomi interrompe l’economia e apre l’eventonella sua ingovernabilità essenziale? Silesius deve essere riletto allaluce di una “nuova teo-logia negativa”; nella figura di una teo-grafia,strategia in cui Dio è colto come l’essere altrimenti oltre essere enon-essere, una strategia che testimoni e riposizioni il primoparricidio, quello dello Straniero di Elea nel Sofista platonico. Post-scriptum. Il retaggio che in qualche modo aveva prosegue etrasformato la tradizione apofatica che Derrida rielabora è di certo ilcontributo di Emmanuel Levinas. La sua riflessione intornoall’Illeità e all’ad-dio è il nodo cui Derrida ri-allaccia quella che cisembra essere una particolare ristrutturazione del senso che Dionigiattribuiva alla parola “teologia”. L’apofatica, filtrata tra le trame dellasospensione levinasiana dell’ontologia, apriva, con Derrida le pros-pettive: 1. del discorso di Dio come impronta-Traccia anacronica edecostruente, un Niente che si inscrive nel moto della sua cancel-lazione e, 2. del discorso su Dio nei termini di una risposta ad-dio,testimonianza del desiderio più disperato per ciò che resta altrimentiche essere, fuori dalla metafisica onto-teo-logica.Il principium rationis di Leibniz, che poneva il fondamento nella
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PARTE SECONDA482ragione sufficiente nell’Ente Sommo a garanzia dell’essente, diven-tava nel pensiero moderno un principio di ragione umana.Nell’apparato critico kantiano e nella sua gnoseologia lamodernità cominciava a situare il luogo del fondamento nel soggettoconoscitivo che pone l’oggetto di fronte a sé21.Se ci si sposta tra le analisi di Husserl, fondatore della fenome-nologia e maestro di Levinas, si tocca l’esigenza di risalire persino aldi qua delle forme a-priori dell’intuizione kantiana (spazio e tempo)considerate come dei costituiti e non come le condizioni trascen-dentali della conoscenza. Il punto di costruzione di un mondo, ilGrund, doveva invece essere ravvisato nella coscienza trascen-dentale, “ridotta dall’epoché”, struttura di un soggetto sgombro daconoscenze precedenti22.Levinas opera una “svolta” rispetto a questa auto-posizione eauto-gestione del soggetto- fondamento di ragione; riadopera il gestodell’epochè per volgerlo contro la fenomenologia stessa e interrom-perne l’ontologia. Si muove già al di qua dell’ego puro, ravvisando,nella nozione husserliana di appaiamento originario (paarung) tra egoe alter-ego23, l’insistere di un’assoluta precedenza su di esso: l’altro.L’altro si ritrae alla velleità di conoscenza del soggetto, non gli sioffre mai originaliter in un’intuizione, sfugge al suo dominioconcettuale.L’epochè, rimessa in questione da Levinas, lascia che si riveliun’irruzione anacronica nella sfera intima e appartentiva del’ego: un“resto” che non si lascia dialettizzare in una sintesi né disciplinarenello spazio domestico della monade; è piuttosto ciò che scoval’essenza del soggetto nel suo “esser-già-da-sempre-fuori-di sé,esser-per-l’altro”. L’ego si scopre in un ritardo non recuperabile, giàda sempre nella condizione di un dovere inalienabile di rispostaall’appello del volto d’altri, da cui sarà già stato traumatizzato e stra-volto all’insonnia dell’attesa e della responsabilità. Dal “nominativodel potere” su se stesso e sulle cose, il soggetto si ritrova in un“accusativo del debito”, esportato dall’altro-verso l’altro, nellacondizione di esposizione alla chiamata.Il passaggio “dall’ontologia all’etica” operato da Levinas, prendecorpo in un certo al-di-qua dell’etica stessa: l’idea di Dio, dunque, fail suo ingresso nello spazio del rapporto duale e asimmetrico
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TEO-LOGIA NEGATIVA483dell’etica. La portata maestosa del volto d’altri nel soggetto, il suosopraggiungergli in un tempo da una lontananza abissale e inun’ossessione tanto prossima da destabilizzarlo “dall’interno” finoall’estradizione ad-altro, si gioca nel volto, che è per Levinas “il luogodella verità metafisica” ove trapela la traccia di Dio, Terzo assoluto;colui che garantisce la relazione etica proprio mentre la interrompe.Questo dio non è più il dio metafisico. Si traccia come la trascen-denza che risuona nell’immanenza del volto e che resta inimma-ginabile, inafferrabile e invisibile: un altrimenti che essere24. Unaprima levinasiana suggestione di tipo apofatico per un discorsointorno a dio come assolutamente altro sarà ereditata da Derridaprecisamente nel concetto di traccia; la traccia è un passato che nonè mai stato presente, una resistenza alla rap-presentazione e allaripresentazione.In Levinas la traccia diceva, secondo l’espressione che egliformula in Altrimenti che essere25, l’Illeità (Terzietà) di Dio fuoridall’essere come “passività più passiva di ogni passività”, che sorgenel “faccia a faccia” dell’etica e lo assicura, parla dal volto ed è la“gloria dell’in-finito” che fa esplodere la finitezza del soggetto: loapre all’infinito nell’ingiunzione alla responsabilità.In Derrida, invece, la traccia “situa” un supplemento d’origine;essa “si traccia” come frattura assolutamente non recuperabile nelregime del senso e apre – oltre il fondamento unico della metafisica– l’eccedenza di un di più (o un di meno) al di qua dell’origine, la dif-ferenza all’origine e come origine che emerge nell’atto della suoritrarsi al regime della essenza (ousia) e della presenza (parousia). È,nella stessa istanza, la spaccatura, lo “spaziamento” (brisure) anacro-nico che mostra l’arche metafisica nella sua supplementarietà, secon-darietà, derivatezza rispetto ad essa (condizione di ogni reductio adunum dell’ontologia), e il supplemento del meno-più che ha già dasempre preceduto, debordato e differito l’origine marcandone il suotrovarsi sempre altrove rispetto al punto in cui la si cerca o, mede-simo dispositivo, sempre ancora da venire. La traccia all’origineindica un resto: non ciò che “avanza” da un calcolo economico maciò che “insiste nel resistere” da sempre a qualunque riconduzionenella legge del proprio26.L’Assolutamente altro che si traccia nell’Illeità di Levinas, diventa
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PARTE SECONDA484in Derrida l’Eterogeneo, il “qualunque altro”, sempre sconosciuto:l’ignoto che resta sempre-ancora a venire proprio perchè è giàvenuto ma in un permanere impensabile, segreto, irrisalibile. Il dio èdeposto nel suo statuto di “fine della pazienza etica” e rivelato inuna portata immateriale: nella sua strutturale spettralità.Nello specifico del problema della teo-logia negativa intesa comediscorso “da Dio a noi”, il Terzo che passa l’essere e la nominabilità,l’Eterogeneo-Traccia smisurato, abissale, “mi agita da sempre”,paralizza la teleologia della “metafisica del proprio” che tenderebbea sintetizzare l’altro. Questo dio blocca il “logo-centrismo” ovedomina la voce, la simultanea e simmetrica rispondenza tra ilchiamante e il chiamato; «Se c’è un lavoro della negatività neldiscorso e nella predicazione, questo accadrà dalla divinità»27.L’Eterogeneo ha lasciato la sua firma (marca, incisione) nel sistemadella dimora prima ancora di ogni ratifica di una legislazionedomestica; è il terzo non-sintetizzabile che fonda il sistema mentreimpedisce che questo si chiuda, la faglia che da sempre “manda avuoto” il moto di ricomprensione del sistema sull’estraneità. «Dionon sarà solamente la fine, ma l’origine di questo travaglio delnegativo, non soltanto l’ateismo non sarà la verità della teologianegativa, ma Dio sarà la verità di tutta la negatività»28. Comerispondere a tale negatività?La situazione di ritardo insuperabile in cui il soggetto si trova, lorichiama ad un dovere di contro-firma al sigillo pre-originario: “diresenza parole” l’irruzione inquietante del Terzo non può quindi chetradursi in un post-scriptum. La teo-logia negativa, questa volta intesanei termini del discorso “da noi a-Dio”, sorge sempre post-festum,après coup, in un secondo tempo, in risposta all’incursione nonmemorabile della Traccia che ha già sempre interrotto la cifradialettica di ogni processo economico. La teo-logia negativa diventaperciò, in Derrida, una teo-grafia; “scrittura in ritardo” che perprima testimonia l’Assolutamente altro in modo rispettoso, «post-scriptum e prolegomeno, descrizione che giunge dopo ciò che essadescrive e pertanto scrittura inaugurale»29, e ha il compito diconservare sacro, salvo, intatto, inviolato il senza-nome di questaTerzietà che “apre nel Segreto”. La “negatività” di questo discorsosenza logos affiora nel compito di spoliazione incessante di ogni
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TEO-LOGIA NEGATIVA485attributo che cerchi di ridurre l’Idefinibile-Invisibile sotto ilcontrollo metafisico del senso; un’opera che ricalca specularmentequell’intralcio che la Traccia di Dio-Terzo ha già messo in opera nelsistema. «Il discorso più negativo, al di là dei nichilismi e delle dialettichenegative, custodisce la traccia. Traccia di un evento più vecchio dilui o di un “aver luogo” a venire, l’uno e l’altro: non c’è là né alterna-tiva né contraddizione»30.E poco più avanti, Derrida calca sulla modalità di tale negativitàdella traccia; il nome di Dio è la traccia di questo singolare eventoche avrà reso la parola possibile prima ancora che essa torni a lui inrisposta, questo singolare “aver luogo”:«Una traccia ha avuto luogo. Sia se l’idiomaticità devenecessariamente perdersi o lasciarsi contaminare dalla ripetizioneche gli conferisce un codice ed una intelligibilità, sia se essa nonarriva che a cancellarsi, se essa non giunge che cancellandosi, lacancellazione avrà avuto luogo, quella fu cenere, c’è là cenere»31.L’interrogazione cardinale del saggio di Derrida da cui è trattoquest’ultimo brano, Comment ne pas parler, riguardava infatti ilduplice respiro che anima un’“esperienza” del segreto nonricollocabile all’interno di nessuna economia della presenza, e che siaddensa nella domanda: Come non parlare? Bisogna (Il faut) nontacere attorno al segreto e simultaneamente salvarlo nella sua indici-bilità. Il “bisogna” segnala ancora una volta (e sempre per la primavolta) l’ingiunzione al silenzio nell’ordine della promessa: una tracciaci sarà stata ed io ho, da tempo irrecuperabile, prima ancora diproferire parola, promesso all’altro di tacere, di custodire il segreto.Tale promessa, già sciolta da ogni «requisizione di presenza»32, indical’urgenza di “dire” fuori dal modo retorico e discorsivo. Il postscriptum “fa i conti” senza calcolo economico con un segreto pre-verbale, con una certa struttura della denegazione.«C’è un segreto della denegazione e una denegazione del segreto. Il
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PARTE SECONDA486segreto come tale, come segreto, separa e istituisce già una negatività,questa è una negazione che si auto-nega. Essa di de-nega. Taledenegazione […] è essenziale e originaria […] questa de-negazionenon lascia alcuna opportunità alla dialettica»33.Il nome di Dio non si dice se non in questa segreta denegazione.La denegazione operata dal segreto, dalla traccia nella sua irruzione,resta segregata e inconoscibile; e rispondere alla marca significa uncerto “trattamento denegativo” del segreto. In un passo del saggioche tocca i modi dell’apofatica dionisiana ed eckhartiana, Derridascrive «della necessità del segreto-a tacere, custodire, condividere34.Bisogna trattenersi nello scarto, trovare il luogo propriodell’esperienza del segreto»35. Quale è dunque questo lieu? Ovescovare il luogo del dio-segreto, che è senza essere e senza luogoproprio? Ha luogo egli nella denegazione? Come e dove leggerel’evento di questa a-topica di Dio? Che significa: “tenersi nel luogodello scarto”?Dai sotterranei della metafisica riaffiorano le movenze di una“questione del luogo”, di un certo luogo d’evento del senza di Dio edel Senza medesimo come luogo d’evento. Del luogo del suo venirecancellandosi. Si avvicina l’urgenza di porre la domanda sulla chora esulla struttura universale dell’esperienza dell’assolutamente altro.In Salvo il nome, Derrida coglie infatti lo slancio cui meglio siaddiceva la modalità di questa particolare “attenzione che denega”l’Eterogeneo nei termini di una de-ferenza ad-Dio. Nell’ad-Dio,termine d’ascendenza levinasiana, si dice il de-ferimento a Dio comesaluto ultimo, abbandono che “lascia venire” intoccato l’altroAssoluto (umano e divino). Derrida lo mutuava dalla formulazionedi Silesius: l’abbandono (Gelassenheit) è l’altro nome del desiderio, ilsuo speculum necessario, la sola “pratica” che mostra ritegno perColui che non si dà mai in un’intuizione presente.Il particolare a-teismo che da sempre ogni enunciato apofaticoporta con sé, la sua “radicalità” non decreta ostinatamente perciòl’assenza di Dio o la sua morte, ma è a-teo-teleo-logia, ovverodesiderio profondo di Dio come inarrivabile alle teleologie deimortali; morte di Dio come Ente supremo degli essenti e rivendica-zione del suo Altrimenti che essere. Un desiderio, scrive Derrida, che
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TEO-LOGIA NEGATIVA487in un moto di rinuncia alla sua stessa spinta di raggiungimento deldesideratum, in uno “slancio che trattiene”, denuncia l’incombenzadel Dio-Segreto come abisso, deserto, Nulla36.Ancora in Politiche dell’amicizia, Derrida offre una definizioneper questo singolare amore oltre il possesso dell’amore e il sensod’appartenenza della fratellanza. La disposizione del “desiderio cheabbandona” è qui detta aimance: «al di là dell’amicizia edell’amore»37, della decisione e della passione, dell’attività e dellapassività. Si avrà modo di ripresentare più avanti la questionedell’aimance, riguadagnando la sua strutturale “apertà” all’accaderedell’evento dell’altro nel discorso sulla “fede folle”, al cuore dellamessianicità senza messianismo. Si resti ora all’addio.L’ad-dio dice, dunque, la de-ferenza (il riferimento vuoto disignificato) che fuggendo i nomi, dif-ferisce l’Eterogeneo semprealtrove.«Dimenticarlo nel chiamarlo, ricordando(se)lo. […] Il linguaggiodell’abnegazione o della rinuncia non è negativo […] esso denunciaingiungendo, prescrive di debordare questa insufficienza, ordina:bisogna fare l’impossibile, bisogna andare laddove non si puòandare. Passione del luogo, ancora»38.Al confine del linguaggio e come linguaggio, Derrida rileva nellavia negativa l’iperbolica “via di verità” che deponga il dio in quanto“donante” una verità o una ragione, e lo riveli come lo spazio dellaverità a-venire, il deserto dove l’evento abbia luogo nella sua alterità.La via negativa sarebbe quindi, per Derrida, la “marginalitàsovversiva” che agita ogni fede dogmatica. La kenosis che essa esigecome suo dinamismo essenziale, ha una gittata messianica. Si tratta,però, di una messianicità che non lega con l’idea di attesastoricamente necessaria di un Salvatore; non è una temporalitàsoteriologica che ingloba l’evento, ma è la dilatazione del tempo inun “adesso” che sfida ogni anticipazione e fa il rispetto senza il qualenon può venire alcuna alterità radicale. Per Derrida l’unico modo direcarsi, ovvero di andare e di venire, è un “andare verso l’impos-sibile”: chi si reca in un luogo che conosce resta già paralizzato nella«in-decisione dell’an-evento»39 ove l’imprevisto è stato neutralizzato
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PARTE SECONDA488in un orizzonte di senso e nulla di nuovo e-viene.L’autentico “recarsi” deve mettersi in gioco con l’indecidibile, alconfine come linguaggio. È un recarsi che abbandona, che si è giàarreso all’altro e lo lascia venire in un atteggiamento di indifferenzaagli attributi di ciò che viene, amando anche l’invisibilità che necustodisce l’inaccessibilità. Derrida parla di “resa”, richiamandol’esercizio di ritegno e d’abbandono alla Resistenza senza nome.Debordare il linguaggio, abbandonare per salvare prende le fattezzedi una sorta di preghiera; che prega Dio di darsi lui stesso, di veniresenza dare alcuna prova; un «Ti amo sempre in cammino»40. «Il desiderio di Dio, Dio come altro nome del desiderio tratta neldeserto con l’ateismo più radicale- Ad ascoltarvi, si ha sempre di piùil sentimento che deserto è l’altro nome se non il luogo proprio deldesiderio. […] In quest’oscillazione la teologia negativa è presa»41.L’apofasi disegna, senza delimitare, il luogo desertico ove dasempre siamo gettati: la Traccia di Dio come luogo del desiderio,desiderio del deserto, desiderio nel deserto. La radicalità dell’ateismoche sempre incombe nell’idea desertica di Dio, testimonia il piùforte slancio di questa fede del desiderio: errare, perdere Dio/altro,perdere l’altro per lasciarlo venire, per rispettarlo nel suo senza.Il luogo aporetico del deserto dunque – luogo potenziale di tuttele vie perché privo di tracciati, confini, autorità nazionale – si mostrasenza manifestazione come terra di nessuno, ove l’altro/Altro puòvenire. L’abbandono è il tributo di ritegno reso all’Impossibile o,con Silesius, a Dio come “il più che impossibile” (überunmöglichste).Dio diventa per Derrida il nome di un «crollo senza fondo, di questadesertificazione senza fine del linguaggio. Ma la traccia di questaoperazione negativa si iscrive in e su e come l’evento»42. Ma cosa egliintende per: passione del luogo?Si parta dalla donazione che avviene nel deserto. Si può toccaretrasversalmente la questione di questo “luogo puro dell’apertura” ela passione irriducibile che in esso si consuma, se si richiama il giocoche lega la teo-logia negativa (nelle due “accentazioni” di Dionigiprima presentate) all’idea di decostruzione. Derrida, riferendosi aSilesius riguardo all’al di là del possibile che Dio era come
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TEO-LOGIA NEGATIVA489eterogeneità assoluta, all’iper-divinità, scriveva:«Questo pensiero sembra stranamente familiare all’esperienza di ciòche si chiama “decostruzione”. […], la decostruzione è sovente statadefinita come l’esperienza stessa della possibilità (impossibile)dell’impossibile, del più impossibile, condizione che essa divide conil dono, il “sì”, il “vengo”, la decisione, la testimonianza, il segreto,ecc.»43.La teologia negativa si avvicina alla decostruzione perché disloca ilsistema teleologico di ogni ragione, di ogni archè. Il procedimentoapofatico di de-ferenza «porta la negatività come principio di auto-distruzione al cuore di ogni tesi»44. La decostruzione è, dal canto suo,un lavoro di continua inquietudine interna al sistema onto-teo-logico;si può praticarla attivamente perché già da sempre il sistema patisce lalussazione imposta dal Terzo, la faglia che lo frattura e gli impediscedi chiudersi, di sciogliersi in una rassicurante totalità.Decostruire dice quindi per Derrida il gesto dell’accelerazione diuna dislocazione già in opera: è la prova del fatto che il sistemastesso, la sua economia fagocitante e nel suo movimento di sintesisillogistica, è impossibile. La decostruzione traduce altrimenti la teo-logia negativa in quella che, a parere di chi scrive, può ricevere ilnome di teo-grafia negativa45. La “negatività” della teo-grafia, intesanel senso del discorso di Dio agli uomini, è nella agitazione senzaorigine, abissale, senza tempo di un Terzo-Traccia senza-nome cheimpone al soggetto-sistema la destituzione delle sue mire sulTutt’altro che ogni altro è. Colta invece nel senso di post-scriptum, dirisposta ad-Dio, questa negatività è decostruzione come compito ditestimonianza della dislocazione del proprio ad opera della Traccia;un gesto che la mantiene salva, inviolata come quell’inattuale che adun tempo fonda e s-fonda il sistema. La traccia decostruente non sida mai alla presenza ma si dif-ferisce sempre a-venire; è la differanceche “spazia il tempo”: spaziamento della distanza che si rinvia senzafine come spazio dell’a-(ancora da)venire.«Questo qui, la X, (per esempio il testo, la scrittura, la traccia, ladifférance [c.vo mio], l’imene, il supplemento, il farmaco, il parergon,
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PARTE SECONDA490ecc.), questo non è né qui né là, né sensibile né intellegibile, népositivo né negativo, né presente né assente, non un neutro né undialettizzabile in un terzo, senza rilevamento (Aufhebung) possibile»46.Proprio tale differenza-traccia, il terzo non dialettico sta a condi-zione dell’evento, che resta impensabile e non preparabile. Il nomeche sembra a Derrida figurare in qualche senso questo abisso, la “X”,l’altro nome della traccia del dio assolutamente altro è forse la chora.Chora e messianicità a-priori: le piste della teo-grafia negativa.L’economico tra due abissiSe rievochiamo la teo-grafia apofatica dal vettore della risposta allatraccia dell’eterogeneo, come de-ferenza che dif-ferisce l’Altro asso-luto e lo lascia a-venire nell’addio, si staglia in essa il compito dimantenere aperto lo spiraglio per l’evento del “più che impossibile”.Derrida ereditava una certa idea di questa apertura pre-originaria edecostruente dal Timeo di Platone: chora è la prima “pista”.1. In Chora, Derrida sottolinea lo statuto eccezionale della chora delTimeo; essa sfidava la logica di non contraddizione dei filosofi el’idea di origine razionale in senso metafisico. Sul piano etimologicochora indicava l’idea di luogo, contrada, spazio, ma in Platone venivaad assumere la portata del terzo genere (triton ghenos), materiaamorfa e riluttante, ricettacolo, causa errante e senza nome47. Aquesto proposito è interessante riprendere la sezione di Comment nepas parler dove Derrida si impegna nell’analisi delle due «tropichedella negatività»48 in Platone. In questa sede offro solo qualcheriferimento sulla seconda tropica, quella che concerne la chora nelTimeo49.Se il primo linguaggio per dire la chora doveva essere quelloriappropriante dell’ontologia e della dialettica, che la coglieva comepunto di passaggio e luogo della partecipazione che fa essere ilmondo nel suo “stare nel mezzo dei piani ontologici” – in quantosomigliante all’uno e all’altro- l’altro linguaggio inscriveva per Derridauna spaziatura irriducibile al cuore del platonismo; chora è un «“né-
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TEO-LOGIA NEGATIVA491né” che non si lascia più riconvertire in “e-e”»50. La radicalità di chorasi concentra nel suo stare “oltre l’essere e l’essente”, a-storica, a-morfa, inumana e a-teologica, che dà luogo poiché non ne ha unoproprio, che non è assimilabile a nessuno schema teomorfico oantropomorfico, che resta «niente di negativo né di positivo. Chora èimpassibile, non è né attiva né passiva»51.Precisamente in questo secondo linguaggio di Platone, neldiscorso di sogno e senza-padre che il Timeo si rassegna ad adottareper avvicinare il concetto-senza concetto di chora, Derrida risale alprimo luogo della filosofia occidentale in cui si sarebbe rivelata ladecostruzione di un’eccedenza metafisicamente indescrivibile; cisarebbe già stato una specie di ventriloquio che fin da Platoneavrebbe perseguito a inquietare l’onto-teo-logia, un segreto cherichiede un «tono generale di denegazione»52. La logica polare deifilosofi e il discorso razionale viene destabilizzato da questa origineintrovabile, dalla “traccia inaudita”, dal “quasi niente” oltre l’essere,dal “tra” che spazia e dona un campo d’incontro e di confrontomentre interrompe ogni soluzione del logos.Derrida la riformula quindi come la differenza spaziante delTerzo-Altro assoluto che decostruisce, la traccia de-negantesi chedivarica (dif-ferisce: nel senso del fare differenza e del rimandare)l’origine e il sistema in una erranza continua e stravolta, che rinviaall’infinito il ritorno a casa. Se la chora è questo nome “insensato”che non è né nome proprio (di persona, anche fosse una “personadivina”) né comune, ed è questo luogo impossibile dell’“impro-prietà”, informe e inimmaginabile, essa deve essere avvicinataancora all’idea dell’abisso di Eckhart e Silesius, del segreto, deldeserto, del Niente di Dionigi, oltre l’essere e il non-essere.Vorrei indicare ancora un ambito di indagine amplissimo ecentrale, utile forse a richiamare il rapporto Derrida-Heidegger e irispettivi movimenti di oltrepassamento della metafisica, segnalandole riflessioni dell’autore francese in Comment ne pas parler a riguardodei due luoghi ove Heidegger avrebbe evitato di usare la parola“essere” e avrebbe posto la questione del luogo. La sezioneconclude l’analisi derridiana delle tre fasi della storia del pensieroove ci si sarebbe posti il problema del “come non parlare” di quelquasi-nulla che chora lascia affacciare. Dopo aver affrontato il
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PARTE SECONDA492paradigma greco (Platone) e quello cristiano (Dionigi-Eckhart), ilterzo motivo tocca alcuni nodi heideggeriani. Derrida sottolinea chenella Introduzione alla metafisica53, Heidegger avrebbe accusatoPlatone di aver mancato il problema del luogo (Ort) e di non averfatto altro che preparare l’interpretazione cartesiana dello spaziocome extensio. Tuttavia, già in Che cosa significa pensare?54Heidegger, commentando il Timeo platonico, aveva rilevato quantoil chorismos (l’intervallo, la separazione) tra l’essere e l’ente fossestato colto a partire dalla chora, come quella differenza tra gli ordiniche si mostra sottraendosi; a partire dl chorismos platonico, l’essenzadell’essere calza nel suo stesso destino: il suo ritrarsi e obliarsi. Ilpensatore tedesco si sarebbe mosso verso l’idea di un luogodell’essere come tutt’altro luogo e luogo del tutt’altro55.I momenti testuali della cancellazione dell’essere in Heideggerrilevati da Derrida sarebbero, in questo frangente: A) quello in cuiHeidegger, nel tentativo di esprimere l’essenza del nichilismomoderno in una topologia dell’essere e del nulla, proponeva discrivere l’essere “sotto cancellatura a croce”, liberando così ilpensiero della Geviert (quadratura) come punto d’incrocio dell’adu-nanza divini-umani-cielo-terra. Ma soprattutto la possibilità dipensare un “luogo del nulla”, che forse si scrive e legge sottocancellatura, come origine della negazione, della negatività e delnichilismo. B). quello in cui Heidegger espunge totalmente l’usodella parola “essere” qualora si voglia scrivere una teologia. Qui sischiude un’aporia nodale: Heidegger afferma che la parola “essere”va evitata perché l’essere non è l’essenza né il fondamento di Dio;tuttavia l’esperienza della rivelazione di Dio, il suo “aver luogo”avviene nella dimensione dell’essere. Come cogliere dunque l’esserein questa dimensione e questa dimensione d’essere? Come e doveinstallare lo “spazio di rivelabilità”, il luogo senza-luogo che donaluogo all’altro e a Dio? Derrida ha affermato che Heidegger: «avrebbe scritto, con e senza la parola “essere”, una teologia con esenza Dio. […] Ma non l’ha fatto senza lasciare apparire una tracciache non fosse più sua ma che resta quasi sua. Non, senza, quasi»56.Heidegger si è posto sulla soglia di questo “sagrato” (per dirla
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TEO-LOGIA NEGATIVA493con Eckhart) della rivelabilità (Offenbarkeit) e ha lasciato in ereditàuna traccia che forse Derrida ha raccolto e radicalizzato.Per Derrida il varco della “dimensione” è aperto dal dio-traccia-Terzo-nulla e segna il luogo della donazione d’evento. L’unicodiscorso trasversale, ultra-iper-razionale che può riferirsi “obliqua-mente” a questo deserto che l’Eterogeneo è come chora, si offre inuna certa rilettura della “via apofatica”. La metafisica patiscel’imbarazzo linguistico nel tentativo di dire ciò che «non apparter-rebbe più all’orizzonte del senso, né del senso come sensodell’essere»57. Chora è infatti l’“anacronia dell’essere”; nel suosussistere nell’essere come resto anacronico, lo fa uscire dal tempodella presenza. La teologia negativa intesa nella teo-grafia negativariesce a far risuonare l’idea di questo spazio che non può essere vistoné pensato; il fuori genere che oltre-passa il discorso mitico oltre chequello logico, l’abisso della differenza all’origine, la traccia che trovala condizione del suo dar luogo nel fatto di non avere un luogoproprio. La chora di Derrida, come Dio oltre l’essere e il non-essere(oltre anche la teologia negativa tradizionale), situa ma non è circo-scrivibile, spaziatura pre-originaria che dismette ogni “ordinamento”metafisico.Nella chora e come chora si annuncia l’eterogeneo, si inscrive lamarca di un segreto che resta sempre impenetrabile: «un segretosenza segreto»58. La stessa declinazione platonica di “causa errante”riferita a chora è recuperata da Derrida nei termini del fondo-senzafondo della differenza, l’origine non originaria che si annuncia cancel-landosi e che sempre rinviandosi nel futuro anteriore eccede l’archi-tettura atropo-teo-logica.Il “luogo spaziante”, senza luogo né nome che chora è, e che lavia apofatica post-festum mantiene all’opera, indica forse proprio ildeserto in cui si pratica il “particolare a-teismo” di Derrida; l’aperturain cui si abbandona l’altro/Altro al suo venire, lo si lascia veniresenza condizioni. Chora è dunque il deserto dell’evenemenzialità,della rivelabilità dell’evento, lo spazio senza vie predisegnate, privodel circuito che indirizzi il traffico delle alterità sotto il controllovigile e rassicurante della previsione. Ogni altro può avere luogo inquesta “piega”, sola a permettere l’avanzare della possibilità di uncerto pensiero dell’evento fuori dall’orbita dell’economico, una certa
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PARTE SECONDA494“attesa senza atteso”: l’apertura all’incondizionato che rinuncia alleproiezioni onto-teo-logiche e si lascia sorprendere dalla tonalitàmostruosa dell’evento.Per poterla cogliere in tutto il suo precipitato, bisogna forsepensare la chora come il luogo di una spettralità. La traccia senzamemoria di ciò che non si lascia sintetizzare e che resiste allatotalizzazione del sistema (Dio come Eterogeneo) richiama, dall’abis-so della sua impensabilità insuperabile, un altro abisso: quello dell’a-venire. Il passato senza presente torna nel modo spettrale comel’Altro, l’inimmaginabile che può venire in qualunque momento dalfuturo, in modo improvviso e fuori dall’orizzonte di senso di unsoggetto.La teleologia dell’economico che scandisce ogni metafisica restaperciò tesa, tirata, sospesa tra questi due abissi: il passato irrecupe-rabile di un traccia che la eccede-oltraggia e l’a-venire non anticipabiledi ciò che si sottrae alla sua ratio. Chora è anche il luogo di un tempodell’im-possibile, che spettralmente minacci o prometta di tornare dalfuturo.2. La seconda “pista” su cui si muove la teo-grafia negativa di Derridasembra indicarsi nella messianicità a-priori59. Il timbro di talesingolare tensione messianica prenderà corpo in una fede “folle” enon dogmatica, che storna l’assicurazione soteriologica insita in ognireligione e rende instabile la convinzione di un ordine storico voltoalla salvezza nel quale questo si conclude e si giustifica in forza di unaragione superiore. Si tratta di rileggere la teologia negativa come a-teo-teleo-logia: il punto di svolta che passa la prospettivaescatologico-economica è, per Derrida, il passo che la nuova “feded’addio” compie al di là dell’odierno “ritorno del religioso”. Nelsaggio Fede e Sapere, Derrida affronta il rapporto di reciprocaimplicazione tra religione e scienza: il “ritorno del religioso” si giocanel luogo di questo allaccio apparentemente paradossale.La questione è complessa e non può essere approfondita in questasede, ma pochi cenni possono essere funzionali a segnare gli snodi dacui sorge il pensiero di una “fede non assicurata”. Sebbene lareligione si sia sempre schierata contro le diverse configurazionistoriche del “male radicale”, vale a dire contro le forme di “morte di
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TEO-LOGIA NEGATIVA495Dio” che il sapere proponeva, in verità, fin dal secolo dei Lumi, èsempre stata legata al sapere e alla sua istanza de-sacralizzante.L’evidenza di questo pre-originario coappartenersi si esplicanell’epoca contemporanea. Per “ritorno del religioso” oggi, si intendenon il trionfo della fede sulle pretese del sapere, ma la nuova figuradel compromesso tra i due.Se il termine latino religio etimologicamente indicava sia lo“scrupolo che raccoglie” attorno ad un sacro – relegere – sia illegame, l’obbligo e l’alleanza tra uomo e uomo o tra uomo e Dio –religare – quella che Derrida chiama l’“ellissi della religione” ruota tradue fuochi: la credenza e la sacralità, la componente del fiduciario equella dell’indenne. La seconda spinge ogni religione alla difesa diqualcosa di inviolabile, sacro, appunto di indenne (Heilig). La primala inserisce in un gioco di responsabilità; nel senso del re-spondeo: lareligione è un atto di credenza col quale ognuno risponde con unmoto di fiducia incondizionata alla testimonianza di una rivelazioneche non si può ripresentare ma deve essere creduta, appunto, al di làdi ogni verifica. Il sapere, la scienza, si appoggia proprio aquest’ultimo “fuoco” della religione: il giuramento, il pegno, la fedegiurata che sta alla radice di ogni responsabilità; nessun patto,seppure laico può avvenire senza che colui che rivela un fatto chiedasilenziosamente agli ascoltatori di “prestargli fede”, prometta inqualche modo “di dire la verità”. Ma ciò che rende questo impegnofra uomo e uomo “garantito”, è precisamente il richiamo implicito adun Terzo, ad un testimone (si noti l’assonanza in latino tra il termine“terzo”, terstis e il “teste”, testis) assoluto che assista al patto e allaresponsabilità che questo mette in gioco: forse proprio un dio.La componente del fiduciario, originalmente religiosa, emergecome fondo d’intesa di ogni comunità scientifica ed è la ragione percui la scienza lungi dal cercare l’estinzione della fede, la sostiene a suopresupposto. Ma anche la religione necessita del sapere; nella misurain cui, nella strutturale spinta alla difesa dell’indenne, è sempreradicata ad un sistema linguistico-politico che, pur trasformandosinelle diverse identità nazionali, resta invariato nel basico attac-camento al luogo, alla razza, al sangue, alla terra. Il religioso si servedel sapere per salvare il suo “recinto sacro” dalla profanazione dinemici esterni.
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PARTE SECONDA496La questione risulta meglio centrata se si fa reagire il religioso conlo sviluppo odierno della ragione critica nella forma di quella cheDerrida chiama la “tele-tecno-scienza”. La forma contemporanea di“male radicale” o di “morte di Dio” che il religioso sembrerebbeavversare è quello che può essere definito un male d’astrazione,poiché ha a che fare con «quei luoghi d’astrazione che sono lamacchina, la tecnica, la tecno-scenza e soprattutto la trascendenzatele-tecno-logica»60. Rispetto a questa figura della de-sacralizzazione,la religione vive in un rapporto che Derrida definisce “antagonismoreattivo e rilancio riaffermativo”. Da un lato infatti la possibilità che il dispositivo tecnico offre diriprodurre all’infinito un avvenimento e di verificare il dato, attentaalla singolarità non ripresentabile dell’evento religioso, che devesalvarsi in una attestazione pura. Da questa prospettiva il nuovosapere sradica la religione dal suo ambito domestico, dal suo proprioetnico-culturale poiché la espropria dalle sue radici deportandolanello spaesamento anonimo della riproducibilità tecnica, indifferentea ogni regime culturale, storico, geografico. Dall’altro lato, taleastrazione mentre strappa la religione alle sue radici, ad un tempo lalega ancora di più ad esse, fornendole infatti gli strumenti per ladifesa della sua identità e per l’allargamento del suo spazio vitalecontro gli attacchi e le contaminazioni del “fuori”. La religionepresuppone la tele-tecno-scienza, il male radicale che la minaccia,come condizione dell’indennità e dell’espansione del suo idioma(linguistico e non solo).Questa manovra di complicazione tra sapere (che presuppone ilfiduciario-religioso) e fede (che si lega al suo opposto per difendere lasua identità) è un moto economico. La religione vive-patisce la“morte di Dio” nella riproduzione dell’evento come dazio per la suaindennità. Detto in altre parole: il religioso trionfa in sensoimperialistico mentre si auto-annienta. Questo effetto apre il mecca-nismo di “immunità autoimmune”, che spinge il religioso a proteg-gersi da ciò che la protegge (cioè dalla tecnica) e genera in essa uncorto circuito: il sapere, la macchinalità della riproduzione dell’eventoinocula nel religioso una certa spettralità61.Per Derrida la religione, come imperativo che ingiunge di mante-nere intatto e inviolato il vivente, davanti a cui fermarsi in un ritegno
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TEO-LOGIA NEGATIVA497in un gesto di riserva e scrupolo (Verhaltenheit in teminiheideggeriani), di abbandono, ha già in sé il meccanismo automaticodella “pulsione sacrificale”: «la vita non vale nulla, se non vale piùdella vita»62; la vita reca la testimonianza di un’eccedenza, di unatrascendenza infinita che vale più di lei, che la oltrepassa e neconferisce dignità sacrale63.L’attesa di ogni comunità religiosa – e perciò politica – sidecostruisce, secondo Derrida, perché precisamente nell’intento diconservare la propria immunità, la comunità stessa danneggia ilprincipio di protezione di sé in vista di una sopravvivenza spettrale: sischiude all’oltre sé che è avvenire imprevedibile. Il sacrificio delvivente contro se stesso si fa necessario per non ferire l’altro assolutoe lasciarlo venire intatto; questo dispositivo che “lancia la vita oltre lavita”, nel suo spazio spettrale, è l’aspetto del religioso liberato dallamacchina tele-tecno-scientifica. Il sapere, nel suo meccanismo diripetizione spettrale dell’evento, impedisce alla religione di diventareuna provvidenza, un’economia di salvezza; attua il sabotaggio di ognisua connaturata soteriologia, di ogni moto di attesa dell’avventorisolutivo del Messia che scandisca l’istanza di fine dei tempi. Nonpuò esserci avvenire senza l’elemento della spettralità chedecostruisce la dialettica teleologicamente orientata e apre a ciò cheviene-tornando sempre, come lo spettro, ma ancora una volta inmodo imprevedibile. Così come nessun avvenire ha luogo fuori dallaripetizione di una promessa di fiducia incondizionata, che ha giàanacronicamente detto “sì” all’ignoto; attesa che non sa cosaattendere o attendersi, che non ha alcuna direzione né oggetto.Questa particolare condizione non messianica, priva del saperestorico-teleologico, è quella che Derrida definisce una messianicitàsenza messianismo, o anche messianicità “a-priori”: un’attesa infinitache lascia venire ciò che non si dà alla presenza, l’eterogeneo che pro-prio perché senza origine né ragione, giunge spettralmente senzaannunciarsi. La promessa traduce il compito di mantenere salvo l’a-venire, fuori da ogni controllo economico, e apre la possibilitàdell’impossibile.Il luogo della nuova connessione tra indenne e fiduciario che lascisalvo l’a-venire, diventa per Derrida la testimonianza: in essa sipromette la verità al di là di ogni prova e di ogni verifica. La fede
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PARTE SECONDA498(ormai distinta dalla religione) deve credere alla testimonianzanell’impossibilità dell’attestazione, come si crede ad un segreto; la“nuova fede” che Derrida suggerisce è una follia dell’attestazione purache crede senza “chiedere ragione” o “principio di ragione”, fuori dalvedere e dal conoscere.L’oltrepassamento delle due “gestioni teleologiche”: da un lato lagaranzia di certezza del sapere tecnico che vuole il controllodell’imprevisto, dall’altro capo la promessa di salvezza messianicadella religione a cui è legato, avviene nella decostruzione reciproca trale due che dà vita a una fede testimoniale disarmata. Derrida coglienella e la di là della tradizione teologico- negativa l’unico genere difede spettrale, che nella sua de-ferenza d’addio lascia venire l’impre-sentabile. L’a-teismo e la particolare “morte di Dio” da lui indicatanella decostruzione che la via negativa opera, è forse ora più chiaracome uscita dall’economia del sapere (sia tecnico che religioso) cheassicura, come fede non dogmatica fuori dal paradigma abramico ecristiano; una fede che rende ragione dell’altro senza tematizzarnel’alterità, lo richiama come spettro, lo lascia venire rinunciando allatentazione di anticiparlo e ricomprenderlo. La decostruzione diDerrida, riformulazione oltrepassante della teologia negativa, sorge,secondo l’affermazione di J. Caputo, nel punto in cui Dio non è némorto né vivo, ma “continua da sempre” a vivere in una formaspettrale, nel punto che si può chiamare traccia di Dio: «E avendo superato la morte di Dio sempliciter, egli ha svelato lastruttura di quel certo essere religioso, di un certo essere sulle traccedi Dio, con o senza Dio […] e ciò costituisce ciò che egli stesso hachiamato una religione senza religione»64.La “religione senza religione” segnala, dunque, una “nuovastruttura dell’essere religioso”; “mettersi sulle tracce di Dio”,dell’assolutamente altro a-venire, o dell’avvenire come assolutamentealtro, a prescindere dall’esistenza di un dio in senso metafisico. Ilcammino di questa fede deve restare cieco e sordo: non saperequando e se l’evento-altro avrà luogo e procedere nel deserto ovealcuna strada è sicura. La traccia anacronica dell’Altro, che passal’origine unica come differance sempre altrove, mi avrà già chiamato
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TEO-LOGIA NEGATIVA499da sempre al post scriptum e alla testimonianza del ritardoinsuperabile, mi avrà lasciato proseguire senza assicurazione (né“assicurazione sulla vita”) nel rischio assoluto di perdita, di morte. Èla “fede disperata” che si situa nel futuro-anteriore della traccia, senzagaranzia e il cui tendere “non ha ragione, né fine”. Solo questa moda-lità a-teologica è però in grado, per Derrida, di lasciare l’avvenireinviolato nelle sue risorse in-attuali65. Alla base della nuova fede nondogmatica, Derrida scopre una razionalità incondizionale: quella chenon prevede l’evento ma lo lascia alla sua “evenemenzialitàimprevedibile”. Se prevedo l’evento, provvedo alla sua neutraliz-zazione; devo perciò liberare il campo da ogni telos e lasciarmisorprendere e “sospendere” dall’irruzione di Colui/ciò che viene:l’impossibile, l’aneconomico, il mostruoso “senza precedente”66.Le due “piste” di questa religiosità particolare, che si offre alrischio assoluto del “ri-veniente” in una ragione incondizionale, comepuro gesto di salvaguardia dell’eterogeneo erano proprio la chora e lamessianicità senza messianismo.Quest’ultima è la “struttura generale dell’esperienza”, che nonimplicando alcuna rivelazione, muove dalla situazione pre-originariain cui ci si trova implicati: l’essere esposti alla sorpresa assoluta, alrischio-risorsa dell’altro in una apertura a-venire senza prefigurazioneprofetica, all’abisso dell’avvenire. Tale messianismo “senza telos” èanche la risposta all’insistenza anarchica della traccia non afferrabile,è una “decisione passiva” del soggetto che risponde all’incombenzadello spettro dell’Altro nell’io. L’economico e il teleologico restano a“galleggiare” tra due baratri, impediti da una temporalità anomala, dauna sorta di lacerazione della storia che perde il ritmo di un processodialettico: «Nel bene e nel male, senza alcuna garanzia né orizzonte antropo-teo-logico. Senza questo deserto nel deserto, non ci sarebbe atto difede, […] né rapporto con la singolarità dell’altro»67. L’atto di fede “negativo” lascia venire senza veder venire, escedall’economia perché non dà disposizioni; controfirma l’“acceca-mento originario” della traccia abissale dell’altro assoluto, ri-marca ilmovimento di una erranza nel deserto.
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PARTE SECONDA500Alla luce di questa apertura sull’evento, è possibile riconsiderare lospazio di rivelabilità di quell’idea di aimance accennata in questa sedein merito alla deferenza d’ad-dio e all’abbandono come unica modalitàdel desiderio che dona luogo al venire, nella distanza e nel deserto.L’aimance; «ed è qui la condizione per aprirsi, tremando, al“forse”»68. L’atto di fede, nel rovesciare l’ordine della certezza edell’assicurazione in quello della credenza e della amicizia oltre ognivolontà d’amicizia, nell’amicizia che vuole la distanza, è l’effetto dellaconversione anacronica dello statuto tradizionale della decisione. Ladecisione, spiega Derrida, è sempre passiva. L’irruzione dell’altro hagià deciso per me e di me, ha ridisegnato il concetto di decisionespostandone il fulcro dall’autonomia del soggetto all’eteronomia diciò che lo eccede da tempo immemorabile. L’altro fa l’inizio assolutonell’interruzione dell’origine unica, è evento senza origine delladecisione lacerante alla quale posso solo rispondere, nell’unica“modalità decisionale” che mi è concessa: quella segnata dall’affe-zione. Questa decisione passiva, ossimoro nel pensiero metafisico,segna invece la possibilità di pensare l’impossibile e restare dischiusial suo sopraggiungere sorprendente, di non neutralizzare ciò che èprima e al di là di ogni decisione. Mi trovo, per così dire, tra gliintervalli del battito del cuore dell’altro; nell’amore che lascia essere,nella zona franca in cui nessuno è a casa propria, nell’esperienzadell’amicizia senza parentela, senza reciprocità, senza prossimità69.In questa esperienza fuori dall’economia di presenza, si dona“l’esperienza im-possibile del pensiero del forse”:«Quel che forse è in procinto di venire non è solo questo o quello, èalla fine il pensiero del forse, il forse stesso. L’arrivante arriverà,forse, perché non se ne deve mai essere certi, dal momento che sitratta di venuta (arrivance), ma l’arrivante sarà anzi lo stesso forse,l’esperienza inaudita, tutta nuova del forse. […] Ora il pensiero del“forse” coinvolge forse il solo pensiero possibile dell’evento»70.Si tratta di una possibilità che deve restare nell’indecidibile e in ciòfarsi “decisiva” come lo stesso avvenire; lasciar venire l’instabilità,l’altro nel suo continuo sottrarsi71. Il forse a cui accede l’aimance èquindi il luogo di incrocio tra possibilità e necessità dell’evento. Ma è
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TEO-LOGIA NEGATIVA501solo l’evento, l’evento dell’altro ad aprire «come per effrazione, e rendendolo possibile a cose fatte, il campodel possibile nel quale è parso sorgere e d’altra parte è difatti sorto.L’evento della rivelazione non rivelerebbe soltanto questo o quello,Dio per esempio, rivelerebbe la rivelabilità»72.Dunque ancora la questione di un campo di rivelabilità, di unluogo di donazione d’evento aperto dall’evento-altro-traccia. Qualesarà il nome senza nome di tale luogo che apre sottraendosi?Deserto, forse, anche, come l’altro nome della “prima pista” diquesta fede non dogmatica in cui Derrida rielabora il pensieroapofatico tradizionale: chora, presupposto di ogni istanza teologica eantropologica. Nella sua piega introvabile, spaziatura che spalanca ilconcetto di sistema, si offre quella che potremmo chiamarel’“architettonica potenziale” di un pensiero di ciò che è al di làdell’essere, del senso, della ragione: l’Altro dell’avvenire. Chora indicail luogo di donazione per definizione; essa non ha forma e nonimprime forma, ma riceve le impronte senza lasciarsi intaccare daesse, non può donare nulla perché non ha nulla; ciò che in essa si“situa”, proprio nello slancio della messianicità “a-priori”, è unadonazione di tempo che lascia venire l’altro senza anticiparlo, un dif-ferire l’eterogeneo continuamente, serbandone la spettralità.La riflessione che Derrida dedicava alla questione del dono eall’impossibilità che ne costituisce l’inessenza, in Donare il tempo73,tocca il “modo” in cui in chora si dona. Il dono è la stessa figuradell’impossibile perché eccede il calcolo economico, lo scambio e ladistribuzione74. Derrida segnala un vero “oblio del dono” alla radicedel circolo economico: il dono non è (un) nulla, ma la tracciaanarchica che fa partire il ciclo economico mentre lo interrompe.Metafora del dono resta infatti la cenere, che non si lascia afferrare nédefinire ma «traccia una traccia non lasciando alcuna traccia»75.Il de-bordare del dono rispetto alla ragione è dato proprio dalladismisura della traccia, che “sbiadisce” i bordi chiusi del sistema; èimprevedibile, come l’evento, un resto senza memoria, al di là dell’es-sere, «il segreto di cui non si può parlare, ma che non si può piùtacere»76.
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PARTE SECONDA502La Chora, dunque, resta il luogo di donazione pre-originariapoiché spazio aperto della traccia che decostruisce, che apreall’evento im-possibile a-venire donando il tempo dell’avvenire77.Nella chora si dona lo spazio-tempo di ogni impensato; di unaamicizia a-venire, di una democrazia a-venire, di una giustizia a-venire, di una religione a-venire, dove:«la a di a-venire declina verso l’ingiunzione così come verso l’attesamessianica, la a disgiuntiva di una differance. […] “occorre iltempo”, “occorre che si doni, la democrazia, il tempo che non c’è[…]. Forse una riformulazione delle categorie del politico odell’etico dovrà passare per una messianicità a-priori; forse la demo-crazia a-venire si lega a qualche “teologhema inconfessato”»78.La deferenza e la denegazione della teo-grafia negativa nella formadi una religiosità senza religione che supera l’economico dellereligioni dogmatiche, si volge a richiamare un certo “dio senza sovra-nità”, la cui venuta è quanto di meno sicuro ci si possa aspettare.Derrida parla di una fede “ipercritica”, che si affida a una razionalitàfolle e incondizionata; al di qua del principio di ragione, “abbandonaattivamente” l’assolutamente altro fuori dall’essere e lascia spazio aun dio vulnerabile, sempre a-venire e lontano dal poter esser definitolegislatore provvidente o principio “economico” che giustifichil’essente nell’atto di ordinarlo. Un dio che è traccia, chora dell’eventodell’altro.Il movimento decostruttivo che anima il pensiero di Derrida, nelriattivarsi da una “certa” teo-logia negativa, è la testimonianzaall’opera di un lavoro continuo e latente: quello di un “intrattabile”(Traccia-dio-Altro-Niente-Abisso-tra) che “rompe i timpani allafilosofia”79 e la costringe a scoprirsi rinnovata dalla sua vertigine.L’economico “principio di ragione” della metafisica non può chefarsi eccedere da tale resto e il logos dell’onto-teo-logia “restamarcato” da un fuori-senso che, nel deserto, spezza l’evoluzionetemporale della dialettica mirante la riacquisizione della presenza.L’unico modo di far vibrare questo Ni-ente, questo negativo dina-mico, questo moto di auto-cancellazione che si mostra solo nei suoieffetti di dislocazione, questo spaziarsi introvabile nel suo “perma-
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TEO-LOGIA NEGATIVA503nere ritraendosi”, potrà forse assomigliare ad un movimento didialettica negativa infinita? L’urgenza della questione persiste, giàsempre aperta, spingendo dal resto abissale di ogni sistema. 1ACfr. J. Derrida, La différance, in Margini della filosofia, [Marges – de laphilosophie, Minuit, Paris 1972], tr. it. di M. Iofrida, Einaudi, Torino1997, p. 32; J. Derrida, Comment ne pas parler-Dénégation, in Psyché;Invention de l’autre, Galilée, Paris 2003, p. 545.2AIn francese il termine pas indica il “passo”, ma anche il “non”, la“negazione”. Inoltre il verbo passer si offre a una interessantepolisemia: significa “oltrepassare”, “trascorrere”, ma nella sua diatesiriflessiva (se passer) da un lato segna il “fare a meno di”, dall’altro sitraduce come “avvenire, accadere”, dando ambito all’interrogazioneintorno al plesso negazione/avvenimento.3A«Passando l’intellegibile stesso, i teologhemi apofatici tendono versola rarefazione assoluta, l’unione assoluta con l’ineffabile (t. d. a.)» (J.Derrida, Comment ne pas parler, cit., p. 543).4AAngelus Silesius, Il Pellegrino Cherubico, Edizioni Paoline, Milano1989, p. 115.5APer il domenicano Reiner Shürmann, ispiratosi alle indicazioniheideggeriane sull’opera di Silesius su citata, il “tendere” silesiano erauna forma di pensiero “peregrinale”, il carattere proprio diun’intelligenza libera e distaccata, che lascia essere l’essere e non vuoleappropriarsi delle cose e «attraverso le sue itineranze, l’origine fa segno»(R. Shürmann, Maitre Eckhart ou la joie errante, Editions Planète, Paris1972, p. 367). Proprio la figura dell’itineranza che si limita a tener dimira e lascia venire il concettualmente inafferrabile, della “destinerranza”mette in opera l’abbandono del cogitatum summum (Dio impensabile-irrappresentabile-Altro assoluto), schiudendo lo spazio della sua“evenemenzialità”.6AJ. Derrida, Salvo il nome, in Il segreto del nome. Chôra, Passioni, Salvo ilNome [Chôra, Galilée, Paris 1993], ed. it. a cura di G. Dalmasso e F.Garritano, Jaca Book, Milano 1997, p. 129.7AIvi, p. 130. Per la trattazione derridiana sulle accuse di ateismo rivoltecontro la teologia negativa cfr. J. Derrida, Comment ne pas parler, cit., p.537.8AM. Eckhart, Sermoni tedeschi, Adelphi, Milano 1985, Pr. 71.
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PARTE SECONDA5049AJ. Derrida, Salvo il nome, cit., p. 155. Alla fine del paragrafo saràesplicitato l’avvicinamento, con le dovute riserve, tra la teologianegativa e la decostruzione come cerniera al problema dell’essenzaaneconomica dell’evento; per ora, è interessante riportare la definizionedi Heidegger intorno alla dislocazione che sorge nei risultati teologicidell’ontologia di Parmenide e della metafisica di Aristotele. Platone,nella Repubblica, parlava di iperbole come quel movimento ditrascendenza che trasporta al di là dell’essere e dell’essenza, un gestoche annuncia.10ACfr. Pseudo-Dionigi Areopagita, Teologia mistica, in id. Tutte le opere,Rusconi, Milano1981.11ANell’opera dell’Areopagita il discorso di Dio (da parte di Dio) era lacreazione come teo-fania nell’effusione luminosa; scendendo dallascaturigine, il discorso si arricchiva man mano di nomi: Dio, essendo inogni esistente, si rivelava nelle Scritture, deposito del discorso positivoche ne conservava l’iper-denominazione. Nella sua immanenza Diopoteva essere richiamato con tutti i nomi degli enti, ma nell’assolutatrascendenza era senza-nome, sfuggiva al dominio del senso, restava“latitante” al raggio della visibilità. Sebbene Uno, come principio dellaprocessione degli enti e Bene in quanto restava il fine dellariconversione, il suo nome non era né Bene né Uno.12AE. Gilson, La filosofia del Medioevo, Sansoni, Milano 2005, p. 91.13APseudo-Dionigi L’Areopagita, Teologia mistica, cit., pp. 412-413.14AIl sospetto di ateismo e l’avversione della teologia positiva contro leesperienze della teologia-negativa si concretizzò nella bolla pontificia Inagro dominico (1326), in cui Papa Giovanni XXII condannava, conl’accusa di eresia, diciassette delle tesi di Eckhart.15AIn primo luogo l’anima doveva rinunciare a se stessa e alle cose delmondo, poi “perdere il Figlio” (perdere l’uguaglianza a Dio, chepossiede solo nell’archetipo eterno del Cristo), infine raggiungere la“morte suprema” o “morte divina”. Qui l’anima perdeva Dio comeoggetto di desiderio. La morte di Dio corrispondeva dunque all’entratadell’anima nell’abisso (Ab-Grund: il fondamento tolto che richiama l’ideadi Heidegger sulla verità dell’essere) indicibile della nuda divinità ovel’anima non ha più un Dio poiché fa tutt’uno con esso. A godere dellapiù alta beatitudine era infatti l’uomo “povero”, privo delle cose, del
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TEO-LOGIA NEGATIVA505sapere di esse, del desiderio di servirsene: ormai giunto nel fondo super-essente di Dio.16AM. Eckhart, Sermoni Tedeschi, cit., Pr. 48.17AIvi, Pr. 71.18A«E se egli (Dio) non è Bontà, né Essere, né Verità, né Uno, che èdunque mai? Non è niente di niente, non è né questo né quello» (Ivi, Pr.23).19AQuel “senza perché” (ohn warum) che passa il dominiodell’esprimibile e del razionale, del logos, dell’origine univoca e risalibile(arche), oltraggia (nel senso del superamento ma anche dell’ “offesa”)ogni metafisica. Il contributo di Silesius alla diffusione del pensieroeckhartiano interessa anche la questione dell’abbandono, diquell’“amore apofatico” che Eckhart aveva trovato come unica via didesiderio che rispettasse l’assoluto Altrimenti di Dio.20AA. Silesius, Il Pellegrino Cherubico, cit., p. 115.21ANella ragione pura (reine Vernunft) kantiana risiedeva la capacità direndere ragione di ciò che è, poiché essa dispone delle “condizioni a-priori della possibilità di conoscenza” dell’essente: l’oggetto non puòstare in piedi da sé, non può prescindere da una soggettività, ragione delsuo esistere. È una ragione che mentre conosce, calcola e costituisce.Cfr. I. Kant, Critica della ragione pura, [Kritik der reinen Vernunft (17811 e17872 ), in KGS IV e III], tr. it. a cura di G. Colli, Adelphi, Milano 1995.22AL’epochè di Husserl, la riduzione trascendentale (eidetico-tematica)imponeva l’indice del dubbio sul “già pensato” del mondo nelle grigliedello psicologismo e dello storicismo e risaliva al campo originario delloscaturire evidente del senso mondano: la sfera apodittica dei vissuti diun soggetto, la coscienza pura, unico luogo da cui “rendereindubitabilmente ragione” di un mondo e da cui inaugurare l’avventurafenomenologica. Nell’ego puro, “punto zero della spazialità”, l’oggettosi dà “in carne ed ossa” lasciandosi penetrare totalmente; con lestrutture intenzionali-temporali pre-originarie il soggetto afferra ognifuori di sé in un dentro che ordina e capitalizza. L’orizzonte di sensoguadagnato nella manovra di riduzione scopriva la legge di correlazioneuniversale soggetto-oggetto (noesis-noema). L’ego husserliano “dàragione” dell’essente nel processo fenomenologico che, sebbeneinfinito, resta teleologicamente orientato. Cfr. E. Husserl, Idee per una
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PARTE SECONDA506fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica Ideen zu einer reinenPhänomenologie und phänomenologischen Philosophie. Erstes Buch:Allgemeine Einfürung in die reine Phänomenologie, (1913), Husserliana BdIII, hrsg. Von W. Biernel, M. Nijhoff, Den Haag 1950], ed. it. a cura diV. Costa, Einaudi, Torino 2002.23ACfr. E. Husserl, Meditazioni Cartesiane [Cartesanische Meditationem undPariser Vorträge (1929), Husserliana, Bd. I, hrsg. Von S. Strasser, M.Nijhoff, Den Haag 1950], tr. it. di F. Costa, Bompiani, Milano 1997.24ALa traccia di Dio/Terzo storna il tempo fenomenologico e apre unatemporalità asimmetrica ove il soggetto perde il suo statuto di origineed è invece chiamato a rispondere a un appello senza memoria.25AE. Levinas, Altimenti che essere o al di là dell’essenza, [Autrement qu’êtreou au-delà de l’essence, M. Nijhoff, La Haye 1974], ed. it. a cura di S.Petrosino, Jaca Book, Milano 1983.26ACfr. J. Derrida, Addio a Emmanuel Lévinas, [Adieu à Emmanuel Lévinas,Galilée, Paris 1997], ed. it. a cura di S. Petrosino, Jaca Book, Milano1998, è ricordata la cooriginarietà dell’Illeità levinasiana rispetto al voltoe la dinamica dell’Altrimenti che essere. Questo, sebbene fosse lacondizione dell’asimmetria tra Altri e Medesimo e rendesse la relazioneetica possibile solo in forza di questo squilibrio, emergendo nelrapporto duale lo intralciava: è l’Altro dell’altro che rivendica il suoposto, impone lo spergiuro originario nel parimenti originariogiuramento etico, apre la questione della giustizia e del politico con losguardo del terzo umano (oltre che di quello divino).27AJ. Derrida, Comment ne pas parler, cit., p. 538.28 Ibidem.29AJ. Derrida, Salvo il nome, cit., p. 157.30AJ. Derrida, Comment ne pas parler, cit., p. 560.31AIvi, p. 561.32AIvi, p. 547.33AIvi, p. 557.34ALa trilogia “taire, garder, partager” (tacere, custodire, condividere)suggerisce la decostruzione derridiana della categoria politica di“comunità”, che la rifigura come lo spazio d’evenemenzialità d’altri e larisposta all’Il faut e al peut-être della sua ingiunzione anacronica. Fuori daogni dialettica del dominio e dai confini “eugenetici” del politico, nel
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TEO-LOGIA NEGATIVA507solco dell’aporia del forse teleiopoietico si schiuderebbe una comunitàdegli “amici della solitudine” e dello slegame sociale. Si veda la letturache J. Derrida fa dell’opera di Nietzsche in Politiche dell’amicizia[Politiques de l’amitié, Galilée, Paris 1994], ed. it. a cura di G. Chiaruzzi,Raffaello Cortina, Milano 1995.35AJ. Derrida, Comment ne pas parler, cit., p. 552.36AL’abdicazione alla matrice narcisistica del desiderio prende corponell’abnegazione all’abbandono che lascia venire (o non-venire)l’altro/Altro (umano o divino) nel suo modo senza modo, im-possibile. Ilpost scriptum della teologia negativa desidera la distanza, di essa gode edessa salvaguarda come massimo gesto d’amore per Dio/Altro.37AJ. Derrida, Politiche dell’amicizia, cit., p. 88.38AJ. Derrida, Salvo il nome, cit., pp. 151-152.39AIvi, p. 167.40AIvi, p. 161. Il movente vitale della via negativa si traduce nel restarein viaggio verso l’irraggiungibile, lasciare aperto nell’abbandono lospazio ove lo si attende.41AIvi, pp. 171-172.42AIvi, p. 149.43AIvi, p. 137.44AIvi, p. 160. Tale referenza in Derrida si distingue sia dall’epochèfenomenologica che dalla skepsis scettica. Infatti non si tratta diregredire al campo di un senso indubitabile del mondo né diconsiderare vana ogni definizione di Dio-Assolutamente altro.45ALa teo-grafia si muove in due versi: da un lato si segna comeirruzione dell’eterogeneo-traccia che in-scrive la rottura nel sistema,dall’altro è il compito di risposta a tale antecedenza, nei termini di unlavoro continuo di post- scriptum, silenzioso, fuori-logos. Nel “tremoregenerale” imposto dal sisma (Cfr. J. Derrida, M. Ferraris, Il gusto delsegreto, Laterza, Roma-Bari 1997) decostruttivo nel sistema, affioral’incursione dell’eterogeneo (Dio) che non si lascia economizzare.46AJ. Derrida, Comment ne pas parler, cit., p. 536.47APer risolvere il problema del luogo della partecipazione tra le idee e lecose per la formazione del mondo, Platone postulava l’esistenza di unterzo genere; ad un tempo eterno e informe come i paradigmi ideali madotato di un “certa materialità” come gli oggetti empirici: chora, luogo
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PARTE SECONDA508intermedio e introvabile di un incontro tra i piani ontologici. Chora eraanche la materia amorfa che resisteva alla volontà di in-formazione che ildemiurgo (la causa efficiente del mondo) cercava di perpetrare su di essa(causa materiale) per realizzare la creazione. Platone la coglieva quindicome ricettacolo di impronte poiché in essa erano i calchi di imitazionedelle idee da cui le cose sarebbero state ricavate. Ma chora si limitava adospitare, a ricevere senza prendere la forma di ciò che in essa giungeva:un luogo di donazione che restava vergine ad ogni trasformazione;introvabile poichè situante (spazio che pone una legge dellapartecipazione degli opposti a cui resta immune) non era mai situabiletramite confini o linee di demarcazione. Si tratta di un “genere difficileed oscuro”: lo spazio sfuggente che non poteva essere tematizzato nellogos metafisico tradizionale per il fatto che nessun significanterealizzava l’essenza del suo significato. Chora restava certo la causa delcosmo, ma causa errante, oltrepassante ogni possibilità di essere afferratain una comprensione: senza logos, senza ratio, senza perché. Platoneindicava perciò un possibile avvicinamento all’idea del terzo genere in undiscorso orfano di padre-arché-principium: un logismo notho, un discorsocorrotto, bastardo, di sogno. Forse, una teologia negativa.48AJ. Derrida, Comment ne pas parler, cit., pp. 563-569.49AIndico qui solo che la prima tropica della negatività (intesa comemomento di posizione di alcuni luoghi “al di là dell’essere”) riguardavada un lato La Repubblica e il moto dell’iperbolizzazione prodotto dalBene che eccede la conoscenza e l’essere, dall’altro il Sofista, overicompariva lo schema del terzo oltre l’essere e il non-essere, e del non-essere come essere altro; il luogo del parricidio parmenideo50AIvi, p. 567.51AIvi, p. 569.52AJ. Derrida, Chora, in Id. Il segreto del nome, cit., p. 79.53ACfr. M. Heidegger, Introduzione alla metafisica [Einführung in dieMetaphisik (1935), Gesaumtausgabe Bd. 40, hrsg. von P. Jeager, V.Klostermann, Frankfurt a. M. 1983], tr. it. di G. Musi, Mursia, Milano1990.54ACfr. M. Heidegger, Che cosa significa pensare? [Was heiβt Denken?Gesaumtausgabe Bd. 8, hrsg. von P.-L. Coriandolo, V. Klostermann,
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TEO-LOGIA NEGATIVA509Frankfurt a. M. 2002], ed. it. a cura di U. Ugazio e G. Vattimo, Sugarco,Milano 1971.55AA questo avviso rinvio all’esame di quella “rispondenza” che nellariflessione heideggeriana sullo spazio come fenomeno originario(Urphänomen) legherebbe in un profondo rapporto la Lichtung, il Gegende la Chora nella idea della “libera donazione di luoghi” che si donamentre si sottrae, dell’intervallo, e nel nascosto dispiegarsi della verità.56AJ. Derrida, Comment ne pas parler, cit., p. 592.57AJ. Derrida, Chôra, cit., p. 50.58AIvi, p. 74.59AChôra e messianicità a-priori sono articolazioni allacciate nellasospensione dell’economico “tra i due abissi” e nella loro apertura all’a-venire liberano la potenzialità dell’emersione di un impensato dellecategorie metafisiche (in senso politico, giuridico, etico); al fine dicogliere ciò, necessita la ripresa derridiana della teologia negativa neitermini di una “religiosità senza religione”.60AJ. Derrida, Fede e Sapere. Le due fonti della “religione” ai limiti dellasemplice ragione, in J. Derrida e G. Vattimo (a cura di), Laterza, Roma-Bari 1995, p. 4.61ALo spettro, né morto né vivo, è colui che resta nella “consistenza”inquietante di qualcosa che ritorna di continuo dall’abisso di untemporalità non lineare o teleologica: un revenant, un “ritornante”,come nel termine francese.62AIvi, p. 56.63ALa figura del sacrificio umano nei grandi monoteismi storici – sipensi al sacrificio di Isacco – è centrale per la comprensione di quelrispetto assoluto che si deve all’assolutamente altro (Dio, che reclamaattenzione oltre le leggi dell’uomo) che traspare nel vivente e per il qualecui il vivente può essere sacrificato.64AJ. Caputo, Dèlier la langue, in «Cahier de l’Herne», 83/2004, p. 69.65ASi tratta di una escatologia a-priori: pensiero delle cose ultime senzaun fine o una Fine, una fede che attende abbandonando il suodesideratum in un addio che lo re-invia sempre come ancora-da-venire.Affinché ciò che viene sia salvo deve restare inimmaginabile, indicibile.L’assenza di orizzonte di senso è proprio la condizione essenzialedell’evento.
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PARTE SECONDA51066AQuesta ragione “fuori dal principio di ragione” e dall’economia chelo guida, è la ratio folle che ha non ha più a che fare col calcolo. Derridacoglie in essa un’istanza massimamente rischiosa; il luogo della decisionepiù responsabile che ospita l’evento lavorando nel campodell’indecidibile.67AJ. Caputo, Dèlier la langue, cit., p. 21.68AJ. Derrida, Politiche dell’amicizia, cit., p. 88.69ARimando qui al discorso di Derrida sulla “comunità anacoretica” inPolitiche dell’amicizia ove l’interesse del politico si trova messo fuorimisura dal dis-interesse di una sorta di iper-politica, quella di coloro cheamano allontanarsi, che condividono il silenzio e la non prossimità oltrele dinamiche del riconoscimento fraterno, foriere dell’esclusionepolitica del “dentro” sul “fuori”.70AIvi, p. 42.71A«l’instabilità dell’inaffidabile consiste sempre nel non consistere, nelsottrarsi alla consistenza e alla costanza, alla presenza, alla permanenzae alla sostanza, all’essenza e all’esistenza, come a ogni concetto di veritàche sarebbe loro associato» ( Ivi, p. 43).72AIvi, pp. 30-31.73AJ. Derrida, Donare il tempo. La moneta falsa [Donner le temps, Galilée,Paris 1991], tr. it. di G. Berto, Raffaello Cortina, Milano 1996.74ASe l’economia si muove strutturalmente sul binario di un tempoteleologico, che serba in sé il proprio destino già incluso nell’inizio edesce dalla sua dimora solo per poi rientrarvi, il dono sospende talecircolazione; storna la necessità di un “ritorno del donato del dono aldonante”, lacera il tempo del ritorno. Il dono è incalcolabile, smisurato,non ricambiabile; non è un “presente” e si annulla se l’altro lopercepisce come tale.75ACfr. J. Derrida, Ciò che resta del fuoco, Sansoni, Firenze 1984.76AJ. Derrida, Donare il tempo, cit., p. 148.77ANella deferenza della fede non dogmatica che salva l’altro nellasciarlo venire senza condizioni, il ciclo economico si spezza ad unaattesa infinita e pericolosa, ad una esigenza di differimento che rilanciasempre quell’inattuale nel sistema da venire.
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